Attività promosse dalla Sen. Elena Cattaneo in Senato
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Agricoltura biologica: l’Amaca di Michele Serra, le risposte di Elena Cattaneo

Il 21 novembre 2018, nella sua rubrica “L’Amaca” su Repubblica, Michele Serra, stigmatizzando “l’arroganza degli autorevoli”, cita le parole di Elena Cattaneo (“il bio serve solo a chi ci guadagna”) in merito all’agricoltura biologica.

Il 23 novembre, la senatrice Cattaneo risponde evidenziando il percorso di ascolto di numerosi esperti dei vari aspetti dell’agricoltura avviato negli ultimi anni.

Il 24 novembre, Michele Serra replica a sua volta alla senatrice Cattaneo.

A fronte di tale replica, la senatrice Cattaneo scrive a Michele Serra una lettera in cui, per punti, analizza la sua risposta pubblica. Di seguito i link ai documenti citati e il testo della lettera di Elena Cattaneo, inviata a Michele Serra il 7 dicembre 2018.

  1. L’Amaca di Michele Serra, La Repubblica, 21/11/2018
  2. “Caro Serra, la scienza sa ascoltare” – Elena Cattaneo, La Repubblica, 23/11/2018 (qui il testo)
  3. “Cara Cattaneo, la Terra è da difendere” – Michele Serra, La Repubblica, 24/11/2018
  4. Lettera della senatrice Cattaneo inviata a Michele Serra il 7/12/2018.

Di seguito, il testo e i riferimenti bibliografici della lettera di Elena Cattaneo a Michele Serra.

 

Alla c.a. del sig. Michele Serra
La Repubblica
Roma, 7 dicembre 2018

                Gentile Sig. Serra,

la sua risposta su La Repubblica del 24 novembre mi fornisce l’occasione per approfondire alcuni aspetti che, per il contesto della sua iniziale segnalazione (“L’Amaca”, La Repubblica, 21 novembre 2018) e comprensibili questioni di spazi del giornale, mi era stato impossibile affrontare nella mia lettera del 23 novembre.

Lo farò ora, dopo molti colloqui, letture e ore di studio che da tempo dedico a capire il “prodotto biologico“. In particolare, desidero capire perché i consumatori lo trovino nei supermercati a costi elevati, cioè quali sarebbero le migliori qualità del prodotto che ne giustificano il maggior prezzo (fino al 110% in più e in alcuni casi anche oltre). Ma anche quali siano le garanzie di sicurezza sui prodotti biologici e le verifiche a monte e a valle della filiera, di quante risorse necessiti “il biologico” per essere realizzato (anche in termini di terra) e quanto se ne produca per unità di suolo. C’è anche da comprendere in modo più accurato “quanti gas serra emette”, quali pesticidi usa e se e quanto questi sono dannosi per l’ecosistema. In sostanza, mi chiedo quali siano le proiezioni temporali e le conseguenze di “un mondo a biologico”, con quale utilità e per chi. Per comprendere, mi informo. Lo faccio anche per confrontare questo processo agricolo con l’agricoltura integrata (che oggi è la tecnologia produttiva agricola di riferimento per efficacia, efficienza e rispetto dell’ambiente) e con l’innovazione delle piante geneticamente migliorate (Ogm e da genome editing) e per capire quali rapporti uomo-cibo-terra-ambiente-politica si innescano, quali proposte avanzare, quali soluzioni cercare e cosa fare della ricerca pubblica in campo aperto sulle piante geneticamente modificate.

Ritengo che farlo sia un mio dovere, oltre che un servizio alla società e ai cittadini, ancora di più quando quello che indago e scopro, studiando, si rivela molto diverso da quello che viene pubblicamente raccontato. Che si tratti di Stamina, di Xylella, di glifosate o dello Human Technopole, dell’omeopatia, delle carni rosse, degli Ogm o della sperimentazione animale.

Da anni mi interesso degli aspetti legati all’agricoltura, che trovo affascinante dal punto di vista culturale e cruciale per la vita e l’economia di un Paese che da vent’anni sembra averla messa sotto anestesia, costringendola a rinunciare all’innovazione. Questo a causa di politiche miopi e irresponsabili, la cui perfetta rappresentazione è il vissuto del professor Eddo Rugini, dell’Università pubblica della Tuscia, che ha assistito impotente, il 12 giugno 2012, al rogo (si trattò di eradicazione e incendio) di trent’anni di conoscenza, attraverso la distruzione delle sue piante di kiwi, di ciliegio, ma anche di ulivi geneticamente modificati per resistere ad alcuni parassiti o per tollerare meglio la siccità. Decenni di ricerca distrutti dalla mancanza di rinnovo di un’autorizzazione.

Ho così compreso che l’agricoltura è un’attività economica fondamentale, che va lasciata ad imprenditori seri, lungimiranti, dai quali si impara, ad esempio, a non riseminare le proprie sementi (pratica prevalente nel mondo rurale del passato dedito a un’agricoltura di sussistenza) bensì ad avvalersi di una industria sementiera moderna ed efficiente che riproduce le sementi in modo tracciabile e certificato (ad esempio per evitare che virus o altri patogeni si trasmettano da una generazione all’altra). Si tratta di un comparto industriale che purtroppo in Italia è stato quasi completamente decimato, costringendoci all’acquisto dei semi (anche di quelli “biologici”) principalmente all’estero, da diverse multinazionali. Con questa politica quindi non abbiamo perso solo i nostri biotecnologi agrari (a proposito delle ricorrenti e retoriche riflessioni sulla “fuga dei cervelli” italiani) e l’innovazione genetica delle piante, ma anche buona parte dell’industria sementiera, il che significa aziende chiuse o estremamente ridimensionate, perdita di lavoro anche altamente professionalizzato, di germoplasma e biodiversità, accesso ai “gioielli” del nostro biotech dato ad altri.

Ho anche imparato che l’agricoltura italiana riguarda un’estensione di circa 12 milioni di ettari, che vanno dalla valle dell’Adige alla Pianura Padana, al tavoliere di Puglia, alla piana di Catania. Un’estensione che, nel diritto alla libertà d’impresa propria di ciascuno – da esercitare pienamente, a condizione di non produrre danni e nel rispetto di standard e regolamenti – sarebbe “irresponsabile” gestire per consegnare al consumatore unicamente prodotti di nicchia ed elitari, perché più costosi. È al consumatore che deve essere rivolto il primo pensiero di chi prende decisioni pubbliche (e magari anche di chi può incidere sull’opinione pubblica) e ha il dovere di far sì che tutti possano avere cibo sano, a prezzi appropriati.

Fatte queste premesse, passando al merito del testo a sua firma pubblicato lo scorso 24 novembre, in replica al mio del 23 novembre, mi hanno colpito i seguenti aspetti:

1) L’inosservanza di un principio che nella scienza (ma non solo) è condicio sine qua non per la propria credibilità e cioè la dichiarazione dei propri conflitti di interesse. Come ho scritto, io non ne ho. Sia chiaro: l’eventualità per cui si sia coinvolti in un’azienda familiare afferente al settore di cui ci si fa alfieri sulle pagine di un quotidiano non deve impedire di continuare a esprimere la propria favorevole opinione, se tale è. Ma non rivelarne l’esistenza significa impedire al lettore di giudicare se tale circostanza possa in qualche modo influenzare la tipologia di informazione che riceve. La dichiarazione sul potenziale conflitto di interessi è l’ “ABC” della scienza, pensavo lo fosse anche del giornalismo.

2) La logica – la sua – in base alla quale io, “autorità mondiale nella ricerca sulle staminali”, definizione data da Lei (a cui si giunge dopo decenni di ricerche e attività, tutte accomunate dal continuo affinamento di come, nella scienza, “si studiano, si acquisiscono e si accertano le prove”) uscirei “dal mio campo di conoscenze” (scientifiche) quando mi addentro sui temi legati all’agricoltura, che studio con il metodo della scienza. Ma allora, se, come Lei stesso lascia intendere, è solo questione di specificità di competenze settoriali, mi chiedo per quale ragione dovrebbe essere Lei “giornalista, scrittore, autore televisivo, e umorista italiano con maturità classica (etc.)” (riprendo – per immediatezza – informazioni da Wikipedia, a cui va aggiunto sicuramente moltissimo altro in ambito letterario e giornalistico) ad avere titolo e competenze per affrontare “i temi agricoli” al pari di un agronomo professionista, un economista agrario, uno specialista dei sistemi agricoli complessi, un docente del settore, un imprenditore di una azienda che si confronta con le quattro produzioni che nutrono il mondo (mais, riso, soia e frumento). Competenze, queste, a cui mi rivolgo da anni, che ascolto, che incontro e da cui imparo.

In particolare, non avendo Lei, almeno da quel che risulta pubblicamente, alcuna preparazione di metodologia della scienza, mi chiedo come faccia ad asserire che “non è scientifica l’affermazione [mia] che l’agricoltura più sostenibile è quella intensiva“. Che, tra l’altro, da quanto emerge dalla letteratura disponibile, risulta esserlo. Nello studio condotto da Burney e collaboratori (2010) si mostra che, se non si fosse intensificato, la terra necessaria a nutrire il mondo sarebbe dovuta raddoppiare (da 1,5 a 3 miliardi di ettari) e le emissioni di gas serra sarebbero esplose, passando da 1,4 a 6,2 gigatonnellate di carbonio. Il concetto è facilmente comprensibile: se si pratica un’agricoltura che produce la metà, allora si deve disporre del doppio della terra per produrre la stessa quantità di cibo. Anche quando si valutano gli impatti sull’ambiente per unità di alimenti prodotti anziché per unità di suolo utilizzato (si veda Balmford, 2018) “l’agricoltura più sostenibile è quella intensiva“.

3) La totale assenza di riflessioni (nel suo testo del 24 novembre 2018 – che tratta dalla “sicurezza“, ai “costi della terra“, alla “salute pubblica“, ai “fondi di investimento cinesi“, etc.) sugli scopi commerciali dell’industria del biologico, sui contributi dedicati che riceve, sulla sicurezza per il suolo dei pesticidi usati in agricoltura biologica o biodinamica, sulle procedure di controllo “circolari” di certificazione dell’industria del biologico, sulle modalità attraverso le quali “il controllore” effettua il controllo, quando, su quali e quanti campioni, e quindi sull’affidabilità di una certificazione pagata dai certificandi.

Per non parlare dei pochissimi controlli di sicurezza alimentare sui prodotti. A questo proposito, gli specialisti di politiche sanitarie legate all’alimentazione mi ricordano, ad esempio, il caso tragico delle 54 morti in Germania causate da germogli di fieno greco da agricoltura biologica risultati batteriologicamente contaminati (Frank, 2011). Un episodio evitabile – da quanto mi viene riferito dagli specialisti – attraverso la disinfezione dei semi con antibatterici o con mezzi fisici, entrambi, però, proibiti dalle procedure del biologico.

Si devono citare, inoltre, i casi di intossicazione registrati in Francia per cereali inquinati da Stramonio (EFSA Journal 2013), o le mandorle biologiche italiane risultate contaminate da salmonella (allarme pervenuto al Rasff, il sistema europeo di allerta rapida), o le aziende biologiche cui i Nas mettono i sigilli perché non rispettose degli standard igienico-sanitari di legge. Tutte cose che accadono non solo, ma anche nel settore biologico, invalidando così la fittizia equazione per cui “bio” sarebbe di per sé uguale a “buono” e “salutare”. Equazione in base alla quale, addirittura, le mense scolastiche vengono incentivate economicamente, con fondi ministeriali, a entrare nella filiera del biologico. Salvo poi ritrovarsi, come a Calenzano, in provincia di Firenze, la pasta servita ai bambini contaminata da bachi (cito testualmente) “difficili da eliminare quando si tratta di pasta biologica“, e doverla sostituire precipitosamente con pasta non biologica “in attesa di verificare coi fornitori (…) la possibilità di avere maggiori garanzie”.

Ecco, io credo che sia una questione di etica pubblica anche questa: segnalare alle famiglie che affidano l’alimentazione dei propri figli alle “mense bio” che dal termine “biologico” non discende automaticamente una dieta “più sana” composta di prodotti “più sicuri”.

È per me anche strano che nessuno degli alfieri del “mangiar sano” ritenga necessario dare informazioni sui rischi dei prodotti biologici. Questo soprattutto dopo la campagna mediatica contro lo spettro del glifosate che si aggirerebbe nei nostri piatti di pasta. Pasta che, tra l’altro, una persona di 60 chili dovrebbe ingerire nella misura di più di 270kg al giorno, per tutti i giorni della sua vita, per raggiungere la soglia ritenuta tossicologicamente sicura per tale erbicida (ADI: Acceptable Daily Intake). Le industrie italiane – per quieto vivere o per interessi di mercato – sfruttano queste suggestioni e paure immotivate, rispondendo, magari, con l’offerta di una nuova “pasta-senza” (in questo caso “”senza glifosate”), ma – spesso e ovviamente – a prezzi maggiorati, che i cittadini, intimoriti da un’informazione dai toni terroristici, si piegano a pagare, illudendosi di farlo per la propria salute.

Circa “i costi della terra“, studiando i numeri relativi agli ettari coltivati a biologico – ovvero che ricevono sussidi per produrre mediamente meno rispetto all’integrato – ho scoperto, sorprendentemente, che più della metà dei 51 milioni di ettari a biologico nel mondo (tra certificati e in conversione) a fine 2015 erano prati, pascoli e foraggere, con l’Australia che ne annovera quasi 23 milioni ed è praticamente rappresentata dai soli pascoli (AgenceBio, 2017, rapporto La bio dans le monde). Non a caso, gli esperti di politiche agricole su scala mondiale mi segnalano che nel 2015 risultavano globalmente a biologico 33,1 milioni di ettari di prato contro i 22,6 milioni del 2012, mostrando, in soli tre anni, un incremento pari al 46%. Per contro, gli ettari a seminativi e con colture arboree sono rispettivamente passati nello stesso periodo da 7,9 a 10 milioni e da 3,2 a 4 milioni.

In sostanza, studiando, si scopre che la “grande crescita” del biologico – che anche l’ex Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina utilizzava a riprova di un “aumento della domanda di biologico” da parte del consumatore, facendo eco al claim di marketing dell’industria del settore – è dovuta per lo più all’aumento di pascoli e prati. Ovvero indirizzi produttivi pressoché indistinguibili da quelli convenzionali, non necessitando di particolari trattamenti fitosanitari e fertilizzazioni (Willer, 2017).

Ho verificato che anche in Italia circa la metà di quel 15,4% di terra (1,9 milioni di ettari) dichiarata “coltivazione a biologico” (che comprende 1,3 milioni di ettari certificati bio, mentre i restanti sono “in conversione”) è lasciata a pascoli, prati e colture foraggere, pertanto improduttivi, ma oggetto di sussidi (Sinab, rapporto Bio in cifre 2018).

Quindi, negli anni, sembra che le politiche per l’agricoltura adottate abbiano incentivato la sussistenza e l’improduttività anziché l’innovazione. Il peso drammatico di tutto ciò per il cittadino lo descrivono bene alcuni agricoltori, che riconoscono di essersi trasformati in “contabili di sussidi” al biologico su terreni improduttivi.

Analizzando la letteratura si capisce anche che i metodi di coltivazione bio presentano rese paragonabili a quelli convenzionali solo per rare colture di legumi e colture perenni e solo in alcune specifiche condizioni ambientali (Seufert, 2012). Altri risultati portati come prova della redditività del bio, comunque inferiori di un 20% rispetto a quelli del convenzionale, sono ottenuti (ad esempio in de Ponti, 2012), in condizioni sperimentali, cioè molto diverse da quelle effettive “in campo”. Ogni tecnica produttiva, comunque, va valutata e utilizzata in maniera “laica”, perché ogni campo è diverso a seconda della composizione chimica del terreno, dell’esposizione e di tanti altri fattori che variano anche all’interno dello stesso appezzamento, in poche decine di metri (conclusione cui giunge anche la meta-analisi di Knapp, 2018).

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Il resto del suo testo è qui di seguito affrontato in una disamina analitica sulla base delle evidenze scientifiche ad oggi disponibili e che ho analizzato, al meglio delle mie possibilità, anche avvalendomi della valutazione di studiosi specializzati, al fine di verificare la solidità di quanto in esso riportato e correggere inesattezze o superficialità: 

1) M. Serra scrive: “…fame e malnutrizione non dipendono affatto da una sottoproduzione di cibo”. Agronomi e biotecnologi esperti di processi produttivi mi spiegano che i 10 miliardi di bocche già oggi sfamabili derivano da un conteggio teorico e che il problema non si risolve semplicemente distribuendo meglio. Il problema di fondo è che abbiamo aree del mondo ove la resa per ettaro delle colture è troppo scarsa (vedasi la tabella alle pagine 118-120 del rapporto FAO The future of food and agriculture: Alternative pathways to 2050, 2018). Ad esempio, gli agronomi mi dicono che il Nepal produce in media 2 tonnellate per ettaro di risone contro le 8 italiane, mentre si potrebbero agevolmente raggiungere le 6 tonnellate per ettaro se solo si adottassero tecnologie più evolute (Parisi, 2011). Desumo che in quelle zone sia necessario insegnare a produrre di più e meglio e anche renderle autonome nella produzione di cibo, il che appunto si ottiene trasferendo tecnologie per far raggiungere loro la sovranità alimentare.

Per quanto gli sprechi alimentari siano da stigmatizzare e da minimizzare, molti studi di economia agraria (ad esempio i documenti FAO del 2011 Continental Programme on Post-Harvest Losses (PHL) Reduction – Sierra Leone, o Global Food Losses and food waste) dimostrano anche che essi sono prodotti soprattutto da (i) mancanza di programmazione delle politiche agricole e alimentari nei Paesi sviluppati; (ii) mancanza di idonee strutture di conservazione e lavorazione dei raccolti nei Paesi in via di sviluppo; (iii) insufficienti tempi di conservazione dei raccolti, per cui sarebbe fondamentale procedere con la ricerca biotecnologica per ottenere varietà che si conservano meglio e più a lungo.

Peraltro non sembrerebbe nemmeno proponibile esportare cibo “a titolo gratuito”, in quanto in tal modo si distruggerebbero le agricolture locali (immaginiamo cosa accadrebbe ai nostri risicoltori se qualcuno dall’estero fornisse gratuitamente riso all’Italia).

2) M. Serra scrive:le ricadute ambientali degli allevamenti intensivi sono pesantissime.

Questo è un dato che gli agronomi e gli esperti di zootecnia mi segnalano spesso ma in questi termini: le ricadute ambientali degli allevamenti intensivi (animali confinati in strutture) vengono quantificate in un terzo delle ricadute degli allevamenti estensivi (il pascolo libero del bestiame) (vedasi Capper, 2008). Secondo lo studio citato, nell’allevamento intensivo delle bovine da latte si emetteva nel 2007 1 kg di CO2 equivalente per chilogrammo di latte prodotto, contro i 3 kg dell’allevamento estensivo. Quindi quest’ultimo produce una maggiore ricaduta ambientale. Un valore che, da quello che comprendo dell’agricoltura e delle difficoltà di chi conduce allevamenti di tipo estensivo, non deve comunque servire per demonizzare tali forme di allevamento, ma che non può essere trascurato. 

Inoltre, studiando, emerge anche quello che pare essere uno dei paradossi dell’agricoltura biologica e cioè che i suoi campi possono essere fertilizzati con prodotti non biologici (persino derivati da Ogm), “per interposto agricoltore”. Il tutto nel formale rispetto dei disciplinari (CCPB, Standard di produzione bio 2014, revisione 2018). Non potendo usare urea e altri prodotti di sintesi, l’agricoltura biologica si affida infatti ai derivati animali per fertilizzare il terreno. Questo non solo per il necessario letame, ma anche per le farine derivanti da scarti di macellazione – come sangue, ossa, corna, zoccoli, pelle – indispensabili a concimare le piante reintegrando le sostanze nutritive come l’azoto. I protocolli biologici ammettono infatti che tanto il letame quanto gli altri scarti di macellazione possano arrivare anche da allevamenti convenzionali, in cui gli animali sono alimentati con mangimi (in qualche caso Ogm) e con foraggi prodotti utilizzando concimi di sintesi non ammessi dai protocolli biologici.

Credo anche che si debbano informare i cittadini vegani-rigorosi del fatto che la pratica agricola “biologica” si poggia – per “fame” di azoto – necessariamente anche sugli scarti della macellazione animale. Nell’agricoltura integrata, invece, per reintegrare l’azoto nel terreno è permesso utilizzare urea e altri concimi azotati di sintesi, prodotti a partire dall’azoto presente nell’atmosfera e da cui oggi dipende il 50% del soddisfacimento del fabbisogno di proteine dell’attuale popolazione umana (Smil, 2011). Andando verso un approccio sempre più razionale, più efficiente e meno impattante, e quindi “di agricoltura di precisione”, si potrà stabilire con sempre maggior accuratezza e parsimonia la giusta quantità di fertilizzanti da applicare, evitando eccessi e sprechi.

Sempre in tema di ricadute ambientali del settore primario, giova poi anche rimarcare la necessità di una corretta interpretazione dell’informazione circolante in tema di emissioni di gas serra di origini agricole, con un dato del “24% sul totale” spesso attributo erroneamente alle sole pratiche di coltivazione di tipo intensivo. Questa informazione risulta fuorviante. Secondo l’IPCC (International Panel on Climate Change), nel rapporto Climate Change 2014: Mitigation of Climate Change, le emissioni attribuite all’agricoltura risulterebbero composte da differenti variabili. Fra queste, la deforestazione e la conversione ad agricolo di praterie risulta la preponderante, rappresentando da sola circa il 40% del valore citato. Se si dovesse abbandonare l’agricoltura integrata ad alta resa, sposando pratiche a minor produttività come per esempio il biologico, per mantenere inalterate le produzioni mondiali di cibo saremmo obbligati ad aumentare la voce più pesante dell’intero computo, aggravando il fenomeno delle emissioni di gas serra anziché alleggerirlo.

Sempre M. Serra: “tra le pesantissime ricadute degli allevamenti intensivi di cui sopra” “…antibiotici che finiscono nel piatto del consumatore”.

Dell’utilizzo sistematico di antibiotici negli allevamenti bovini si parla diffusamente dagli anni ’80, quando non esisteva l’esatta percezione delle criticità connesse all’uso di antibiotici (si pensi ai tempi passati, quando venivano somministrati ai bambini persino senza ricetta, ai primi colpi di tosse). Le risposte alle FAQ sull’antibiotico-resistenza reperibili sul sito del Ministero della Salute recitano testualmente: “È falso che negli allevamenti intensivi si faccia uso di antibiotici per accelerare la crescita degli animali. Questo tipo di utilizzo è vietato in Europa, per legge, dal 2006”.

Oggi, gli esperti di zootecnia che ho consultato mi spiegano come l’uso di antibiotici negli allevamenti sia calato in Italia del 30% in soli sei anni (Ministero della Salute, 2018, Dati di vendita dei medicinali veterinari contenenti agenti antimicrobici 2016) e inoltre sia strettamente monitorato dagli enti controllori (che, a differenza di quanto succede per il biologico, non sono pagati dalle aziende che richiedono la certificazione). In particolare, i residui di antibiotici sono sistematicamente ricercati nei prodotti di origine animale secondo le linee guida del Piano Nazionale per la ricerca dei Residui delle ASL, redatto annualmente dal Ministero della Salute. Ne consegue che un uso “illecito” viene identificato con relativa facilità, il che rende i nostri prodotti zootecnici molto sicuri.

Discutendo con gli allevatori si comprende quindi che la questione degli “antibiotici nel piatto” è presa molto seriamente e costantemente sotto scrutinio da parte degli organismi deputati alla sicurezza alimentare. Con l’arrivo, previsto per il 2019, della cosiddetta “Ricetta elettronica”, per giunta, la tracciabilità negli usi degli antibiotici diverrà pressoché totale.

Peraltro, perfino gli standard di produzione biologici (vedasi CCPB, citato sopra) e quelli redatti da Demeter, ovvero la multinazionale tedesca che rivendica l’esclusiva per la certificazione dell’ “agricoltura biodinamica” (quella del “cornoletame”), contemplano l’uso di antibiotici, antielmintici e piretroidi di sintesi contro gli ectoparassiti.

3) M. Serra scrive:le monocolture impoveriscono i suoli”.

Su questo argomento vale la pena ascoltare i risicoltori delle aree fra Lomellina, novarese e vercellese che spiegano che si può fare monocoltura per secoli senza che la produttività ne risenta. O i maiscoltori (anche loro imprenditori particolarmente preparati) che mi spiegano che nelle monocolture di mais la sostanza organica si mantiene se gestita correttamente e che, in termini di unità foraggere per ettaro, la monocoltura di mais produce il triplo rispetto al prato stabile e, dunque, consente di nutrire il triplo di bestiame. Particolare che, mi è stato spiegato, per decenni ha reso possibile la sostenibilità economica delle aziende zootecniche.

Immagino, però, che Michele Serra sappia anche che gli stessi maiscoltori sono attualmente sull’orlo del baratro perché una percentuale di circa il 40% (con grande variabilità inter-annuale) del nostro mais è inutilizzabile (anche per l’alimentazione animale) in quanto pieno di fumonisine, possibile causa di tumori esofagei e di sicuro inibitrici dell’assorbimento di acido folico (De Ruyck, 2015; Marasas, 2004; Stockmann-Juvala, 2008). Tale malassorbimento può causare malformazioni del feto che vanno dal labbro leporino (palatoschisi) alla spina bifida. Condizioni di campo, queste, cui non si può rimediare, vigendo nel nostro Paese il divieto di coltivazione del mais BT (Ogm), che pure è stato dimostrato essere sicuro per l’uomo e l’ambiente (Pellegrino, 2018). Accade talvolta che siano ritirate dal commercio delle farine bio con un contenuto di fumonisine superiore al limite di legge (vedasi nota di richiamo del Ministero della Salute, 6 ottobre 2017).

Un altro dato che gli studiosi di economia agricola mi segnalano spesso – e che mi pare ignorato nella replica di MIchele Serra – è che dal 1960 stiamo lavorando sugli stessi ettari di arativi (nello specifico 1,5 miliardi a livello mondiale) e che in tale periodo le rese per le grandi colture che nutrono il mondo, vale a dire frumento, mais, riso, orzo e soia – che garantiscono cioè oltre il 70% delle calorie necessarie all’alimentazione umana, sono quasi triplicate. Si vedano ad esempio i grafici elaborati dalla Purdue University a partire dai dati del National Agricultural Statistics Service USA sulle rese del mais dal 1866 ad oggi (USDA-NASS, 2018); o, sulle rese del riso, Politi, 2001. Tutto questo suggerisce che i cali di fertilità adombrati non siano reali, e che anzi, le rese possano essere migliorate con l’uso integrato di pratiche agronomiche tradizionali e innovative.

Peraltro, l’aumento di produzione ha consentito di lasciare ai boschi e alle praterie superfici enormi che, in caso di una conversione al biologico, sarebbero in larga parte assorbite dall’attività agricola.

4) M. Serra scrive:se per migliaia di ettari hai solo soia, magari per produrre biocarburanti, quella fetta di terra è morta a ogni altra specie”.

In tema di biocarburanti, le scelte fatte sono politiche. La razionalità vorrebbe che venissero destinati a biocarburanti gli eccessi produttivi nelle annate in cui si verificano, oppure gli scarti produttivi (come il mais con fumonisine già citato) o, ancora, i sottoprodotti e i liquami zootecnici.

Ricordo inoltre che il nostro Paese necessita di soia, che importiamo ogni giorno in grandissime quantità (pressoché tutta Ogm), per usarla come alimento per il bestiame. Di essa abbiamo necessità per produrre la stragrande maggioranza dei prosciutti e formaggi DOP che sono fra i principali prodotti alimentari da esportazione del Made in Italy (si veda il documento depositato in commissione Agricoltura del Senato da Assalzoo il 18 giugno 2015).

Quanto ai campi di soia, avendo avuto occasione di vedere le fatturazioni emesse da un conto-terzista, ho personalmente scoperto che la soia non-Ogm, cioè quella che coltiviamo nei nostri campi, utilizza, in più fasi diverse, più erbicidi diversi, uno dei quali è il glifosate – il quale, peraltro, risulta tossicologicamente meno pericoloso del rame usato in agricoltura biologica, secondo l’EFSA, ma non solo (si veda Andreotti, 2017 per il glifosate; La Torre, 2016 per il rame).

Del resto, alcuni imprenditori biologici mi confermano che anche l’obbligo ad arare, erpicare, sarchiare e rincalzare una coltura come la soia biologica fa sì che gli impatti sul terreno, sulla biodiversità e sulla fertilità assoluta siano pesanti. Soprattutto in termini di emissioni di gas serra dovute al dissodamento del terreno e al maggior consumo di carburanti agricoli.

In generale, una visione d’insieme della questione – che è bene mantenere includendo la specie umana – permette anche di comprendere che, ad oggi, contrastare le colture intensive (mais, riso, soia, frumento e orzo) significa condannare a morte almeno il 50% dell’umanità che vive nelle città e che non potrebbe in alcun caso autoprodurre il proprio cibo. E che contrastare tale agricoltura (inclusa la viticoltura) significa affondare gli unici prodotti Made in Italy da esportazione rilevanti che abbiamo oggi nel nostro Paese (vini, pasta, Grana Padano e Parmigiano Reggiano, prosciutti crudi di Parma e San Daniele, olio).

5) M. Serra scrive: “La meccanizzazione è una meraviglia e ha liberato i coltivatori da fatiche bestiali: ma se il peso delle macchine diventa eccessivo i terreni perdono fertilità”.

Ho conosciuto agricoltori innovatori che usano droni per monitorare i loro campi, oppure impianti di fertirrigazione (le cosiddette “ali gocciolanti”) per gestire ogni goccia d’acqua. Professionisti che conoscono ogni meccanismo e operatività relativamente alla rotazione delle colture, alla fertilità del loro suolo; ogni insetto, foglia o radice che vi compaia. E sanno anche bene che l’ingegneria applicata all’agricoltura offre una risposta alla questione dei compattamenti dei suoli attraverso l’uso di pneumatici più larghi o a bassa pressione, o di gomme gemellate, per meglio distribuire la pressione. Questi agricoltori-imprenditori, insieme ai conto-terzisti che nell’agricoltura odierna forniscono imprescindibili ed efficaci professionalità, dovrebbero essere messi in grado di poter fare investimenti usando una meccanizzazione adeguata.

Meccanizzazione che, come detto sopra, riguarda (anche rispetto al peso delle macchine) più il biologico che l’integrato, visto che la rinuncia ai prodotti chimici obbliga a lavorazioni meccaniche reiterate. Con tutto quel che ne consegue anche in termini di maggiori emissioni di gas serra.

6) M. Serra scrive:I successi tecnologici ed economici a breve termine (quantità di raccolto e di profitto) possono mutare verso se li si analizza a medio e lungo termine: spremere un campo oggi per avere niente domani non è produttivo, è predatorio e imprevidente. I concetti di utilità e di produttività non sono così “oggettivi”: o meglio lo sono a seconda dello sguardo politico (utile a chi? Produttivo per chi?) e soprattutto della loro proiezione nel tempo. Il consumo dei suoli, la rotazione delle colture, la complessa (e ancora misteriosa) interdipendenza tra le specie — l’uomo tra esse — non sono una branca della magia. Sono biochimica. Sono pura scienza. “La natura è un esperimento scientifico che dura da quattro miliardi di anni”.

Il “consumo dei suoli, la rotazione delle colture (…) le specie” non sono solo “biochimica” ma anche agronomia, botanica, microbiologia, zootecnia, antropologia, biologia evolutiva, entomologia, pedologia, ecc. Vale a dire tutte discipline scientifiche che hanno abbandonato nel XIX secolo l’approccio magico, il quale, tuttavia, è stato resuscitato poco dopo da un filosofo tedesco amante dell’omeopatia, Rudolf Steiner. Approccio che, peraltro, è stato incomprensibilmente affiancato a quello scientifico in una recente pagina che – a mio avviso, applicando la “par condicio”, cioè il famoso “uno vale uno”, a temi scientifici – non onora il quotidiano (vedasi La Repubblica, 13 novembre 2018) e, soprattutto, induce i lettori a riconoscere alle “forze cosmiche” del “cornoletame” una (inesistente) equivalenza col metodo scientifico.

Circa la natura come “esperimento scientifico che dura da quattro miliardi di anni”, questo è un fatto assodato. Ed è pure un esperimento meraviglioso che, nel mio piccolo, studio con decine di studiosi nel laboratorio da me diretto alla Statale di Milano, per scoprire, comprendere e curare alcuni dei suoi esiti nefasti (malattie, epidemie, carestie, cataclismi etc.) da cui cerchiamo di difenderci, fin dal nostro primo istinto vitale.

Da diecimila anni, poi, la specie umana pratica l’agricoltura: il nostro ingegno e la nostra capacità innovativa ci hanno consegnato la possibilità di incrociare specie inadatte al consumo umano per crearne di nuove, commestibili, come l’attuale pomodoro, la melanzana e moltissimi vegetali, fino al frumento incrociato per ottenere spighe che portano in sé i genomi di tre specie diverse: il grano Creso. Un super Ogm (da mutagenesi fisica, e quindi come tale escluso dalla direttiva europea 2001/18, ma rientrante in pieno nella definizione data dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea dello scorso luglio, “organisms obtained by means of techniques/methods of mutagenesis”) con il quale produciamo la nostra buonissima pasta che da decenni ci nutre senza mai registrare alcun caso di ospedalizzazione al mondo, nonostante sul suo genoma l’uomo sia intervenuto pesantemente, addirittura con le radiazioni.

Con l’ingegno e l’innovazione, con esperimenti scientifici, possiamo anche prevedere il consumo di terra, organizzarlo, renderlo più efficiente, possiamo estenderne i benefici a popolazioni che non hanno cibo producendo noi le varianti biotecnologiche che funzionano alle loro condizioni ambientali. Si tratta di alimentare l’innovazione in ambito agrario ma anche la ricerca pubblica, con ogni strategia in campo, per produrre piante geneticamente migliorate adatte a crescere in luoghi inospitali e impervi dove l’uomo ancora oggi muore di fame. Questa sarebbe – a mio avviso – una prospettiva politica con una proiezione temporale, di utilità, produttività e solidarietà culturale degna di un Paese civile.

7) M. Serra scrive: “Ne sappiamo abbastanza? No. Ma a non saperne abbastanza non sono solamente quelli del jet-set del bio (sessantamila aziende, cinque miliardi di fatturato, quasi due milioni di ettari coltivati solo in Italia: un jet-set popoloso, direi)”.

Questi, dunque, i numeri che ho potuto verificare circa il “jet-set del biologico”. Cioè di quell’insieme di attori i quali (esercitando legittimamente un loro pieno diritto di coltivazione, commercializzazione e guadagno, che nessuno intende ostacolare) decidono di coltivare biologico. Ma, presumibilmente per conseguire maggiori ricavi da una pratica che ha una scarsa resa, oltre a non offrire una migliore qualità (Dangour, 2010), insieme alle multinazionali della grande distribuzione alimentare compiono pervasive operazioni di marketing volte a far credere a ignari consumatori che il bio che commercializzano sia “un cibo migliore”, aumentandone il valore percepito per giustificarne il costo più alto. Purtroppo, la realtà è ben più complessa di una favola di marketing e – come indicato ai punti sopra – l’etichetta “bio” non è di per sé garanzia del miglior impatto possibile di un prodotto sulla salute, sull’ambiente e sul portafoglio del consumatore. Per un Paese, un governo, un parlamento, promuovere una tale filosofia alimentare, classista e elitaria non può essere, a mio avviso, una scelta eticamente neutra.

La “favola” è smentita, se non altro, anche dalle analisi che attestano l’elevata tossicità per l’uomo e per gli animali del rame, il principale “pesticida bio”- che, sia chiaro, è utilizzato anche nell’agricoltura integrata, ma in misura minore, poiché quest’ultima può contare su altri rimedi (più efficaci perché ad effetto sia curativo sia preventivo) preclusi al biologico. Di seguito le avvertenze sul “naturale” rame (ottenuto scavando montagne e miniere, e poi lavorato dall’industria chimica per trasformarlo in solfato):

Solfato di Rame: Nocivo se ingerito. Molto tossico per gli organismi acquatici. Tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata. Per evitare rischi per la salute umana e per l’ambiente, seguire le istruzioni per l’uso. Tenere fuori dalla portata dei bambini. Non mangiare, né bere, né fumare durante l’uso. Lavare accuratamente le mani dopo l’uso. Non disperdere nell’ambiente. In caso di ingestione accompagnata da malessere: contattare un Centro Antiveleni o un medico. Sciacquare la bocca. Raccogliere il materiale fuoriuscito”.

Così come altri pesticidi biologici presentano, ad esempio, le seguenti tossicità (secondo le schede del Servizio fitosanitario della Regione Emilia-Romagna):

Azadiractina insetticida: H317 (H=Hazard-pericolo) – Può provocare una reazione allergica cutanea. H411 – Tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata”;  

Spinosad: R50 – Molto tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata. Contiene 1,2-benzisothiazolin-3-one. Può provocare una reazione allergica. Per evitare rischi per la salute umana e per l’ambiente, seguire le istruzioni per l’uso. (…) Tra gli imenotteri è molto attiva nei confronti di api e bombi, se colpiti direttamente dal prodotto, cioè per contatto diretto”

È a questo “jet set del biologico” che mi riferisco, cioè a quello su grande scala, commercializzato dalle multinazionali della grande distribuzione alimentare, che usa pesticidi tossici come o più di quelli di sintesi, il doppio di terra e, senza alcuna miglior qualità verificabile dei suoi prodotti, viene venduto ad ignari cittadini a prezzi maggiorati. Niente a che vedere con l’autocoltivazione, l’orto di casa, le colture di nicchia e i Gruppi di Acquisto Solidale.

I numeri, inoltre, come già anticipato, rivelano che, dei 1,9 milioni di ettari del biologico italiano (1,37 milioni certificati, 536mila in conversione, secondo i già richiamati dati Sinab 2018), circa la metà è costituita da prati, pascoli e foraggere che di bio non hanno nulla (se non i sussidi dedicati, che ricevono per non produrre).

A ciò si aggiunga che, incomprensibilmente, non si dispone pubblicamente, ad oggi, di statistiche produttive sulle rese per ettaro del biologico, il che impedisce di cogliere in modo immediato quanto tale procedura non sia la soluzione adeguata ai nostri problemi, oltre a quanto (poco) produca.

Da qui il mio invito ai produttori, agli economisti, a coloro che discutono, elaborano e stabiliscono le politiche agricole nazionali, a domandarsi se un Paese che importa oggi il 50% del frumento necessario per produrre pasta e il 35% degli alimenti zootecnici (fra cui la soia, quasi tutta Ogm, e buona parte del mais, in parte Ogm, necessari per i nostri allevamenti, formaggi e prosciutti derivati) possa permettersi il lusso di gestire 1,9 milioni di ettari con procedure che portano a produttività bassissime.

E che le produttività siano bassissime lo sappiamo in via indiretta vedendo cosa accade in altri Paesi produttori. Ad esempio, gli economisti agrari mi informano che nel periodo 2007-2015 la Francia, il primo produttore europeo di grano tenero, ha registrato una produzione media nazionale pari a 7,3 tonnellate per ettaro per il convenzionale contro le 2,9 tonnellate per ettaro per il bio (con uno scarto del -68% secondo l’Académie d’Agriculture de France, 2017).

8) M. Serra scrive:A saperne poco, anzi a non volerne sapere niente, sono anche i fondi di investimento cinesi e americani che comperano mezza Africa per sradicare l’agricoltura di auto-sostentamento e imporre l’agroindustria. Non basta nemmeno più la parola “latifondo”, a definire il fenomeno. L’avidità umana non risponde alla scienza, la disciplina che la regola è la legge del più forte. Agroindustria vuol dire anche un modo di produzione, una nuova gerarchia sociale. Vede quanto è complicata l’agricoltura, senatrice Cattaneo: c’è anche la politica di mezzo, a complicare le cose”.

Parlare di Africa (e più in generale di Paesi in via di Sviluppo) in modo indifferenziato temo possa solo alimentare facili luoghi comuni. Ad esempio, studiosi di cooperazione allo sviluppo del mio Ateneo mi dicono che in alcuni Paesi africani non esistono proprietà privata e catasto, il che impedisce qualunque miglioramento fondiario: chi può investire in agricoltura se la terra non è sua? Mi spiegano anche che all’Africa occorrerebbe trasferire tecnologia (nuove varietà geneticamente resistenti alle condizioni locali, concimi di sintesi, prodotti fitosanitari, diserbanti, ecc.) per far aumentare le rese e si dovrebbero creare aziende di dimensioni compatibili con un’agricoltura di mercato. E che l’esperienza italiana degli ultimi 70 anni dimostra che, quando le dimensioni aziendali sono insufficienti scatta inevitabilmente  la fuga dalle campagne.

La logica dice quindi che trasferire il “metodo” bio all’Africa porterebbe a perpetuare rese di pura sussistenza, con la conseguenza che – presumibilmente – la gente fuggirà verso le città (l’esempio che mi viene sempre portato è la megalopoli di Lagos, che oggi totalizza ben 16 milioni di abitanti) o verso l’Europa. Non è quindi comprensibile perché insistere a “esportare” nei Paesi in via di sviluppo un approccio protocollare e rigido quale è quello biologico, invece che promuovere un’agricoltura “laica” e integrata, con buone pratiche da scegliere e utilizzare caso per caso, a seconda delle caratteristiche ambientali e socio-economiche.

Peraltro, alle emergenze proposte da Michele Serra se ne aggiungono molte altre che non sembrano alla sua attenzione (cambiamenti climatici, nuovi parassiti, fabbisogno di cibo…). Anche queste vanno affrontate. Sostenere che si riuscirà a superarle grazie a biologico e biodinamico mi sembra non tenere in sufficiente conto questa dimensione di complessità.

9) M. Serra scrive: “Così che il “dato scientifico”, in sé solamente un dato, diventa utile, diventa prezioso solo se lo si mette a confronto con altri dati. Spesso contraddittori. Un lavoro faticosissimo, come sa bene chi si occupa di ricerca. Non si stupisca se le dico, gentile senatrice, che gli agricoltori biologici sono, a modo loro, dei ricercatori. Suoi colleghi magari un po’ strambi, ma con uguale tensione scientifica: cercano di capire come l’estrazione di cibo dalla terra possa lasciarla indenne e ancora fertile. Non è un mondo nostalgico, che si racconta favole sulla “natura buona” e vorrebbe vivere “come una volta”. È un mondo che cerca innovazione, e ha fortissima necessità di tecnologia e di scienza. Non credo sia possibile (troppa animosità in campo), ma sarebbe bello trovare il modo e la sede per mettere a confronto non solo e non tanto i “dati certi” ai quali lei, come scienziata, si appella”.

La scienza e il metodo di indagine del reale su cui essa si fonda per ridurre gli spazi dell’incertezza hanno cambiato il mondo nel XX secolo. In ambito agrario l’impegno scientifico ha permesso di incrementare le rese delle colture e degli animali da allevamento, con risultati che hanno innovato profondamente la tecnologia di produzione agricola. Come conseguenza, la percentuale di popolazione mondiale in condizioni di sicurezza alimentare è oggi a livelli mai raggiunti in passato (secondo la FAO – vedasi rapporto The State of Food Security and Nutrition in the World, 2018 – siamo all’89%, contro il 63% del 1970 e il 50% del 1945).

Il mondo del biologico si contraddistingue invece per l’uso di fitofarmaci “vecchi” e non biodegradabili come il rame – con gravi danni da inquinamento per l’ambiente (Ruyters, 2013), consistenti anche in contaminazioni a lungo termine, tali da modificare il microbioma del suolo, che necessitano pratiche agronomiche specifiche per decontaminare il terreno se si vogliono fare nuovi impianti (Ferreira, 2018) – o per l’uso di varietà coltivate “antiche” (in realtà quasi tutte selezioni dei primi decenni del XX secolo, tra cui quelle del grande genetista agrario Nazareno Strampelli) a produttività ridotta rispetto a quelle moderne (Kronstad, 1998). Una scelta che sembra cercare di “recuperare in soldi” quanto si perde in produttività, sfruttando un marketing che esalta a priori l’ “antico” (vero o presunto), ma in realtà quasi obbligata per un biologico che lesina in nutrienti, difesa fitosanitaria e diserbo e che rifiuta i concimi di sintesi.

In sintesi, per garantire sicurezza alimentare nell’attuale contesto mondiale e lasciare il più possibile la terra indenne e fertile occorre quindi usare l’ingegno e le migliori tecnologie disponibili (genetica evoluta, difesa integrata, agricoltura di precisione, agricoltura conservativa), unite a una logistica in grado di rifornire le città e a tante altre cose.

Che “l’animosità“, gli aspetti emotivi e irrazionali giochino un ruolo fondamentale nelle scelte umane è indubbio. Si chiamano “bias cognitivi” e gli storici della medicina e gli scienziati cognitivisti spiegano che si tratta di retaggi evolutivi ancora presenti nel cervello umano, che rendono “contro-intuitivo” comprendere la scienza e il suo rivoluzionario metodo, spingendoci a credere, ad esempio, nella bontà “a priori” della natura, da cui in realtà l’uomo ha sempre dovuto difendersi. O a dubitare di una puntura che somministra un vaccino a un bambino sano.

Cognitivisti e umanisti aiuteranno la società a superare questa difficile impasse. Agli scienziati credo però si debba riconoscere l’adozione di uno strumento fenomenale per resistere a queste trappole cognitive: il metodo scientifico. Questo porta a misurare il contenuto di una carota biologica e a confrontarla con quella da agricoltura convenzionale, facendo l’esperimento in cieco, cioè senza sapere “quale è quale”, o a verificare la fondatezza dell’affermazione (cito) “il mais Ogm fa male alla salute e all’ambiente” potendosi avvalere delle prove e del loro consolidarsi a livello mondiale (da decenni miliardi di persone si nutrono grazie agli Ogm, senza alcun danno alla salute).

Sono questi “milioni di occhi puntati” su ogni scoperta e su ogni numero a rafforzare la probabilità che il risultato ottenuto sia vero, al meglio delle nostre conoscenze attuali, ovvero a confutarlo e correggerlo (con lo stesso metodo scientifico) laddove presenti margini di errore. È così che, in un domani anche molto vicino, quella scoperta potrà essere ulteriormente rifinita, accertata, implementata con i nuovi esperimenti a cui sarà sottoposta, oppure facilmente eliminata se smentita – se si rivela una “scoperta-non-scoperta” – garantendo il consolidamento della scienza (e del nostro benessere) attraverso l’incessante verifica pubblica, terza e competente.

10) M.Serra scrive: “Anche quei “dati incerti” che sono le persone, le loro esperienze, le loro sensibilità. Come hanno già scritto, in polemica con lei, 53 professori e ricercatori (primo firmatario Claudia Sorlini, ex preside di Agraria) “oggi l’agricoltura ha il gravoso compito di nutrire il pianeta, di erogare servizi ecosistemici ed essere nello stesso tempo economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile. Il ruolo del mondo della ricerca è di fornire il supporto scientifico a questo importante percorso, senza sposare acriticamente posizioni di parte”.

Non basta essere presidi di Agraria per essere scienziati. Né possedere o guidare un trattore per trasformarsi in esperti di politiche agricole su scala nazionale e/o internazionale. Bisogna portare le prove di quel che si sostiene, e ogni volta dimostrarle di fronte alla comunità mondiale degli studiosi (e ai cittadini).

Se le prove consistono in un corno di vacca riempito di letame, crolla l’autorevolezza di qualunque preside di Agraria, così come crollano persino i premi Nobel che sostengono la (smentita) teoria della memoria dell’acqua (è successo, in un caso molto recente). Fortunatamente si tratta di situazioni che colpiscono una parte minima – ma esistente – della comunità scientifica.

Gli scienziati sono ben lungi dall’essere perfetti, e alcuni di essi non discutono le prove, preferendo cercare il “confronto tra le opinioni”, o portando prove insussistenti o inesistenti, o addirittura rendendosi protagonisti di comportamenti di frode scientifica (mi è capitato di scoprire il caso di uno studioso invitato in Senato a parlare delle sue ricerche sugli “Ogm che fanno male alla salute” – peccato che gli studi fossero falsati, rientrando in quella piccola percentuale di lavori “scientifici” che rilevano problemi negli Ogm per la salute per poi dimostrarsi falsi, ai quali viene imposta la retrazione dalla pubblicazione e che hanno l’Italia come epicentro di tale “fake-science”; vedasi Sanchez, 2017). Non si riuscirà mai a capire cosa porti alcuni scienziati che dovrebbero fare del metodo scientifico il loro emblema ad abbracciare l’inganno, la frode o i corni di vacca. Ma succede.

Anche il problema della nutrizione del pianeta e della sostenibilità dipende dalla scala su cui si ragiona. Bisogna infatti studiare e parlare con gli esperti del settore per capire che la sostenibilità economica di una singola azienda è cosa ben diversa dal nutrire un mondo che per oltre il 50% è oggi inurbato, o dal contenere le emissioni di gas serra a livello globale.

Ad esempio, in uno studio già prima citato (Burney, 2010), alcuni ricercatori di Stanford, usando un modello matematico di simulazione del sistema agricolo globale, hanno messo a confronto due scenari per il periodo che va dal 1965 al 2010: nel primo (che è poi sostanzialmente quello immaginato dal comparto biologico) l’agricoltura arresta l’innovazione tecnologica al 1965, per cui, per sopperire alla crescente richiesta di cibo espressa dalla popolazione mondiale, si è obbligati ad ampliare le superfici coltivate; nel secondo, invece, si applicano le tecnologie reali. Il risultato è che nel primo scenario le superfici coltivate (arativi globali) passano da 1,5 a 3,2 miliardi di ettari e le emissioni di gas serra da parte dell’agricoltura quadruplicano, passando da 1,4 a 6,2 gigatonnellate di carbonio (con il dissodamento e le lavorazioni meccaniche si emette moltissima CO2). È chiaro che il primo scenario non è sostenibile: infatti la conclusione dello studio è che, per garantire sicurezza alimentare nell’attuale contesto mondiale, occorre usare le migliori tecnologie disponibili in termini di genetica e di tecniche colturali.

Infine, la scienza di certo non tratta “le sensibilità” delle persone, ma si appella ai fatti documentati e documentabili. Dati che il legislatore può certamente ignorare per alimentare politiche agrarie elitarie, improduttive e catastrofiche per il presente (vedasi la bilancia commerciale italiana nel settore agro-alimentare) e senza proiezione futura, anche grazie al “blocco” ventennale della ricerca pubblica in campo aperto sulle piante geneticamente migliorate.

Quello che però non va permesso alla politica (né all’informazione) è di manipolare i dati della scienza a sostegno di posizioni che di per sé contengono poca razionalità e molto “cornoletame”.

 Concludo, gentile sig. Serra, segnalando che per quanto complicata sia l’agricoltura, perché “c’è anche la politica di mezzo“, ci sono scienziati e studiosi di tutto il campo del sapere abituati ad affrontare, scomporre, analizzare e ricomporre cose molto, molto complicate. Queste possono riguardare la tettonica delle placche, la decifrazione del cipro-minoico, le galassie, o eventi avvenuti miliardi di anni fa o, ancora, riguardanti una lettera sbagliata del nostro DNA, sulle oltre 3 miliardi che lo compongono. Per affrontare e cercare di risolvere queste ed altre questioni, gli studiosi si confrontano internazionalmente rendendo evidenti dati e prove e accettando ogni critica documentata.

Il nostro Paese e il mondo sono ricchi di questi studiosi, giovani e meno giovani, straordinariamente preparati, capaci di intraprendere e realizzare missioni inimmaginabili, mai affrontate prima, con benefici evidenti su molti aspetti della nostra vita, e da estendere al maggior numero di persone e aree del mondo. È così che si è arrivati a scoprire quei batteri vulcanici che respiravano ferro, esistiti 3,777 miliardi di anni fa, facendo retrodatare di 200 milioni di anni l’origine della vita sulla Terra, o quell’onda gravitazionale partita 4 miliardi di anni fa dalla collisione di due buchi neri. È così che con metodo scientifico ci si avvicina a saper interpretare le scritture antiche o a curare terribili malattie umane modificando poche lettere del nostro DNA. Una strategia che può essere efficacemente applicata anche alle nostre piante per salvarle, riducendo l’impiego di pesticidi (biologici o di sintesi che siano) e aumentando la biodiversità.

Sembra paradossale che non ci sia ascolto verso coloro che promuovono l’agricoltura integrata come sintesi fra intensificazione e sostenibilità (produrre di più per unità di superficie, senza perdere fertilità e riducendo l’impatto, potendo giovarsi degli straordinari progressi della gestione integrata dei parassiti e delle colture, come pure dell’agricoltura conservativa – dei nostri patrimoni –  e di precisione). Per farlo basterebbe che, dal mainstream giornalistico alla politica, passasse il concetto che “chi ha a cuore la sostenibilità non può e non deve negare l’innovazione tecnologica“.

Ciò che sento mio dovere civile contrastare con tutta la determinazione di cui dispongo – sia come scienziata, sia nel ruolo istituzionale d’eccezione che il Presidente Napolitano ha voluto conferirmi e che svolgo con l’unico interesse di condividere e rendere disponibili analisi e dati utili alle politiche del Paese – è l’inquinamento della conoscenza. La realtà scientifica va offerta ai cittadini spogliata di bufale e suggestioni pericolose. Che si tratti di Stamina o dei riti esoterici della cosiddetta agricoltura biodinamica o dello story-telling che racconta (falsamente e tout court) che “gli Ogm fanno male alla salute e all’ambiente”. O, ancora, della favola – da anni divulgata sui mezzi di informazione, in sedi istituzionali e con campagne di marketing – del biologico che farà vivere di più e più in salute e nello stesso tempo permetterà di salvare il pianeta dalla fame e dall’inquinamento. Una favola che ha anche finito con il far percepire la grande maggioranza dei nostri imprenditori agricoli (quelli che producono cibo sano per tutti, a prezzi accessibili, innovano, integrano tecniche e hanno a cuore la terra che coltivano) come nemici.

Soprattutto, la narrazione (falsa) dell’industria del biologico, che promuove certi prodotti facendoli credere migliori e meno inquinanti, a mio avviso, inganna il consumatore, promuove una visione del mondo non meno consumistica per il fatto di essere elitaria, nuoce all’economia del Paese e si disinteressa di quella stragrande maggioranza di italiani che deve poter accedere a cibo sano a prezzi equi e accessibili.

Desta anche sconcerto leggere che si debba promuovere un comparto perché “impiega (…) imprese che maggiormente crescono per volume e fatturato” (vedasi Il Messaggero, 28 novembre 2018) come se l’altrui successo commerciale dovesse o potesse essere il motivo per invogliare i cittadini a spendere il doppio o il triplo per alimentarsi. Un’idea che ritengo contraria ad ogni etica pubblica.

Perciò, gentile sig. Serra, se crede, continui a scrivere di agricoltura biologica, a promuoverla e a difenderla, ma, nel farlo, riconosca che “anche” questo tipo di agricoltura fa uso di pesticidi (è una brutta parola, bisogna ammetterlo, ma seppur “non di sintesi” di questo si tratta) e rilascia sostanze tossiche nel terreno. Riveli, ad esempio, ai suoi lettori che il rame, di cui la viticoltura bio non può fare a meno, è un metallo pesante che ha un profilo tossicologico più pericoloso del glifosate e che rimane a lungo nel suolo. Sarebbe l’inizio di un “ascolto resiliente e umile” che i tanti agricoltori, agronomi e studiosi italiani che vogliono innovare per il proprio Paese decisamente meritano.

Cordiali saluti,
Elena Cattaneo

 

Post scriptum:

(i) Lei scrive che io ho messo “nello stesso sacco (…) biologico e biodinamico, entrambi dediti a pratiche esoteriche”. Spiace che cerchi la ragione mentendo ai lettori di Repubblica su quanto ho scritto. Nel mio testo ho avuto l’accortezza di specificare che la cosiddetta agricoltura biodinamica “oltre a utilizzare le pratiche proprie di ogni sana agricoltura (integrata o biologica), ha come specificità l’uso di preparati a base di fecondazione cosmica, vesciche di cervo e cornoletame”. Scrivo, quindi, di principi esoterici che il biodinamico avrebbe “in più” e che, tra l’altro, Lei si guarda bene dallo stigmatizzare.  

(ii) Non sono certo io a mettere “nello stesso sacco (…) biologico e biodinamico” (tanto meno per “convenienza polemica”). E nemmeno “qualche sortita di qualche babbeo e/o fanatico(1)” (queste sono sue definizioni). Questi due settori sono infatti fattualmente presentati e difesi insieme (da qui il mio, stupito, “vanno a braccetto”) dagli stessi produttori del biologico e dalle loro Federazioni, come si può facilmente verificare (FederBio, per citarne uno). Esiste inoltre, nientemeno, una proposta di legge che sta per arrivare in aula alla Camera dei Deputati, in cui, all’articolo 1, si legge “il metodo di agricoltura biodinamica viene equiparato al metodo biologico”. A Lei le conclusioni su quanto Lei stesso scrive.

(iii) Spiace anche il tono che sceglie di usare nei miei personali confronti (“eccesso di legittima difesa”, “intransigenza (…) squisitamente ideologica” etc.), mentre nella mia lettera a Repubblica io parlavo di uno specifico argomento (“la narrazione del biologico”) perché credo che i cittadini debbano essere difesi – almeno tanto quanto la terra – da un marketing spregiudicato e da una politica che da anni restituiscono un’immagine incompleta, falsata e illusoria della realtà.

Il presente testo potrà essere reso pubblico dal mittente o dal destinatario

 


(1) Si precisa che le parole “qualche babbeo e/o fanatico” da parte del sig. Serra non erano riferite a chi “mette nello stesso sacco biologico e biodinamico”, ma a chi sostenga la posizione per cui “la chimica tout court fa male alla salute”: si veda, ad esempio, il sito del progetto “Cambia la Terra”, promosso da Federbio, che presenta in home page un box “contro l’agricoltura chimica” senza ulteriori specificazioni.

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Articoli e testi citati

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